Sustainability border tax
È sotto gli occhi di tutti il recente fallimento del vertice Cop25 a Madrid. Gli interessi hanno prevalso sul bene comune. L’Europa è sicuramente il continente più all’avanguardia sul tema ambientale, tanto è vero che la Presidente Ursula Von der Leyen ha annunciato al Parlamento Europeo il programma “European Green Deal”. È la strategia per far diventare l’Europa il primo continente climaticamente neutro entro il 2050 e che trasformerà in modo sostanziale l’economia, attraverso proposte legislative e strumenti finanziari.
Ma arrivare all’impatto zero nel 2050, come proposto dalla presidente della Commissione, comporta costi elevati: fra i 200 e i 300 miliardi l’anno. Il sistema europeo, per poter competere a livello internazionale, punta da anni alla compressione dei costi: dovendo aggiungere anche i maggiori investimenti per la politica verde, si rischia che l’industria europea diventi meno competitiva.
È chiaro quindi che, essendo ormai il mercato globale, ci devono essere condizioni omogenee di produzione anche al di fuori dell’Europa. Se non si riescono a convincere alcuni stati che hanno grandi produzioni e poco rispetto per l’ambiente e per le condizioni dei lavoratori (p. es. India e Cina, ma anche Stati Uniti) ad adottare comportamenti etici, è necessario trovare misure adeguate per indirizzarli verso produzioni sostenibili. Il senso di responsabilità in alcuni casi va indotto.
Una possibilità è quella di introdurre dei dazi sulle merci che varcano i confini europei e che non rispettano dei parametri ambientali prestabiliti (p. es. CO2 o Global Warming Potential) e condizioni di produzione rispettose dei diritti umani.
Crediamo sia l’unico modo per implementare comportamenti corretti nei confronti dell’ambiente e nello stesso tempo per riequilibrare lo scompenso competitivo dovuto a maggiori costi per produrre beni e servizi, in linea con gli obiettivi Onu di sviluppo sostenibile. Il mancato accordo trovato in occasione del Cop25 a Madrid testimonia che alcuni Paesi antepongono i propri interessi economici al bene comune, non essendo disposti ad accettare volontariamente condizioni che potrebbero sfavorirli nella competizione globale.
Alcuni Paesi europei hanno già proposto una “Carbon tax” che imponga dazi a quegli Stati che, fuori dall’Europa, producono attraverso tipologie di energia a basso costo e più inquinante.
In questo scenario la valutazione di conformità di terza parte, comunemente detta certificazione, può avere un ruolo fondamentale: può attestare in maniera imparziale e con la necessaria competenza gli impatti dei prodotti che si affacciano sul nostro mercato, così come garantire che vengano messe in atto tutte le misure necessarie per rispettare i diritti dei lavoratori. La certificazione, tanto più se accreditata, è un utile sussidio al sistema regolatorio per attuare politiche che possano, oltre che difendere l’ambiente e il nostro pianeta, equiparare le condizioni di produzione di beni e servizi e garantire, di conseguenza, una sana competizione commerciale.
Editoriale da ICMQ Notizie n. 96