La certificazione volontaria di prodotto: i perché di una qualità effettivamente superiore
È innegabile. Il mercato globale, oggi, per qualsiasi prodotto o servizio si vada cercando, offre numerose alternative, con prezzi che spaziano dalla cosiddetta “alta gamma” al “basso, ai limiti del ridicolo”.
In questo oceano di proposte, è bravo chi riesce a trovare il prodotto “conveniente”, di buona qualità a prezzo commisurato, capace di integrare buone prestazioni (misurabili e verificabili) a costi ragionevoli.
Nell’ambito della qualifica dei fornitori, nel corso degli anni, sono stati considerati aspetti genericamente positivi: dapprima le condizioni di pagamento favorevoli, le consegne puntuali, prezzi particolarmente bassi. Poi si è passati a considerare l’esistenza di un sistema di gestione per la qualità, magari certificato da un ente terzo, meglio se sotto accreditamento, favorendo il diffondersi della seguente equazione: sistema di qualità certificato = buona qualità del prodotto.
L’equazione tradotta, significa: “Se un’azienda è ben organizzata (con certificato rilasciato da ente terzo), certamente immetterà sul mercato prodotti di buona qualità”. Ciò, per fortuna, risulta vero in molti casi, ma non può essere stabilità una relazione diretta tra la buona organizzazione di un’azienda e la conformità delle prestazioni del prodotto fornito, rispetto alle attese dell’utente finale.
Per comprendere meglio questo concetto, farò un esempio che mi riguarda direttamente. Mia moglie ha comprato qualche giorno fa degli auricolari bluetooth per il cellulare prodotti in Cina (come tutti gli altri disponibili sul mercato, quindi non per questo peggiori), di un marchio pressoché sconosciuto in Italia. Costavano un terzo rispetto a quelli di un marchio molto famoso che, essendo da anni presente sul mercato, ha dato dimostrazione di una produzione affidabile, con un sistema operativo “rock solid” (che in ambito Android è tutt’altro che scontato).
Bene. Dopo tre giorni hanno già smesso di funzionare. Prima l’uno e poi l’altro.
Contattato il servizio clienti (mia moglie era convinta che non le avrebbero nemmeno risposto), hanno proposto la sostituzione del prodotto o il rimborso. Scelto il rimborso, chiesto come si faceva a restituire il prodotto, ci hanno detto che potevamo tenerli (il che sembrerebbe un gesto generoso, in realtà il fornitore così risparmierà oneri e costi di smaltimento).
In un’ottica Iso 9001, il fornitore potrebbe aver agito in modo lodevole. Ha risposto al reclamo ed ha chiuso il contenzioso con la restituzione di quanto pagato. Avrà registrato una non conformità per il malfunzionamento del prodotto, avrà analizzato le cause della non conformità, ne avrà registrato i costi, chiudendo la non conformità; avrà inserito il tutto in una analisi statistica che entrerà a far parte del prossimo riesame della direzione. Magari avrà anche aggiornato l’analisi dei rischi…
Alla prossima verifica ispettiva, gli auditor Iso 9001 non potranno far altro che lodare l’operato dell’azienda certificata.
Tuttavia, come diceva il mio buon docente di elettrotecnica dell’università, “agli effetti esterni” (cioè ai capi del circuito elettrico preso in considerazione), ovvero per mia moglie, il problema è rimasto. Siamo tornati alla situazione precedente alla decisione di acquistare gli auricolari. Finora abbiamo “perso tempo”.
In questo momento mi sovviene un terribile ricordo, che mi conferma di quanto io sia convinto del lavoro che svolgo, al punto di “sostenere la giusta causa” anche con i miei famigliari. Quando mia moglie li stava acquistando su internet, guardando le immagini degli auricolari, ha visto un marchio CE e mi aveva pure chiesto un parere! “Vieni un po’ a vedere! È scritto bene questo marchio CE?”. Il marchio CE è costituito da due lettere inscritte in due cerchi virtuali affiancati; se questi sono parzialmente sovrapposti si tratta di un marchio “China Export”, che è un po’ come il “Parmesan” degli americani… Il marchio CE era scritto correttamente (per inciso: i cinesi che scrivono da tremila anni con gli ideogrammi, non l’avranno ancora capita la storia dei due cerchi?).
Dal marchio CE all’ISO 9001
La logica del marchio CE, pur con tutte le declinazioni previste dalle varie direttive e regolamenti, prevede che il fabbricante effettui “Prove Iniziali di Tipo” (ITT) tramite le quali determina le prestazioni del prodotto, che dichiara, sotto la sua responsabilità, nella marcatura CE; poi implementi un “controllo di produzione in fabbrica” (FPC), tramite il quale garantisce che i prodotti in serie assicurano le prestazioni dichiarate in ambito CE; il tutto in conformità ai requisiti della norma europea inerente il prodotto specifico. In seguito l’organismo notificato (ovvero l’ente di certificazione) verifica che il fabbricante abbia effettuato gli ITT e tiene sotto controllo, ad intervalli regolari, il suo FPC. A conclusione, il marchio CE è obbligatorio per la vendita del prodotto.
Ai fini della qualità del prodotto, questa logica, risalente alla fine degli anni ’80, rappresenta di certo un passo avanti rispetto alla logica Iso 9001, che invece nasce circa 70 anni fa nelle prime multinazionali, come strumento organizzativo e gestionale, per tenere sotto controllo le sedi geograficamente distanti.
Vi è il riferimento univoco a una norma inerente il prodotto specifico, vi sono precise istruzioni su come debba essere implementato e gestito il controllo di produzione in fabbrica, vi sono modalità severe di autorizzazione e tenuta sotto controllo degli organismi notificati. Sono inoltre previsti controlli sui materiali in ingresso, sul processo produttivo, sul prodotto finito, con frequenze determinate. Vengono verificate: la taratura degli strumenti di misura, la manutenzione delle macchine di produzione, la formazione degli addetti. Il tutto al fine di stabilire dei parametri prestazionali di valutazione univoci ed agevolare così la libera circolazione dei prodotti sul mercato comunitario.
Tuttavia l’obbligatorietà della marcatura CE e l’attenzione della Commissione Europea a non incidere negativamente sull’operatività delle aziende, hanno condotto, in molti casi, all’allineamento dei requisiti verso il basso, al fine di non escludere dal mercato determinate categorie di fabbricanti.
Ciò non toglie che l’approccio “CE” abbia conseguito risultati sulla qualità del prodotto così importanti da essere oggi inserito, come requisito contrattualmente vincolante, in ordinativi di grandi organizzazioni, private e governative, mediorientali, asiatiche ed africane, che legalmente non sarebbero tenute a prevederlo.
Come possiamo quindi trovare un requisito di qualifica di un fornitore critico, che finalmente ci possa assicurare un livello adeguato di qualità? (termine abusato che significa: “misurabilità e predicibilità delle prestazioni di un prodotto o di un servizio”).
Senza nulla togliere agli approcci Iso 9001 e CE, che hanno certamente i loro lati positivi (in mancanza di un servizio post-vendita efficiente, quelli degli auricolari non avrebbero neppure risposto a mia moglie), probabilmente la strada giusta va cercata aggiungendo controlli sui prodotti e togliendo vincoli di obbligatorietà agli approcci sopra esposti.
La ricetta per la formula perfetta
Oggi sono di gran moda i reality di cucina, in cui i concorrenti sottopongono i loro piatti al giudizio di chef famosi. Posso proporvi una ricetta?
Prendete un sistema di gestione per la qualità. Aggiungete i controlli sulla produzione previsti da una norma di prodotto (quelli della ipotetica marcatura CE di quel prodotto sarebbero certamente un sottoinsieme di quelli presenti nella stessa norma). Aggiungete prelievi e prove periodiche sul prodotto finito da parte di un ente di certificazione accreditato, che, operando sulla base di una norma a lui riservata, la Uni En Iso 17065, riconosciuta in tutto il mondo e non solo in Europa, rilascia un certificato dove attesta, lui stesso e non il fabbricante, le prestazioni dello stesso prodotto.
Mescolate bene ed aggiungete l’ingrediente “dello Chef”, quello che fa la differenza: la volontarietà.
Bene: avete ottenuto la certificazione volontaria di prodotto.
Il fabbricante o il fornitore del servizio non sono obbligati ad ottenere la certificazione di prodotto, ma l’impegno, gli investimenti su prove al vero, macchinari, strumenti di misura e personale, sono diretta conversione operativa di una politica aziendale virtuosa.
Essa in questo caso non è conseguenza di un’imposizione, ma è frutto della volontà aziendale di differenziarsi dal resto del mercato, per fornire al cliente una vera garanzia di qualità del prodotto, non nei termini generici in cui siamo abituati a intendere il termine “qualità”, ma nei termini predicibili e misurabili delle sue prestazioni, chiaramente dichiarate sul certificato rilasciato dall’organismo di certificazione (terzo indipendente), sotto accreditamento. A questo punto, non occorre altro per ritenere un fornitore qualificato. Ma soprattutto il consumatore può stare certo che le prestazioni dichiarate e certificate sono davvero reali.